Nell’edificio dove sono in bella mostra armi, corazze, attrezzi da guerra e da tortura, mura invalicabili e ponti levatoi che stanno là dal XIV secolo, a ben sentire, dall’angolo più antico e recondito detto Palazzetto, sul cortile che rosseggia in autunno con la meraviglia delle viti americane, dal 1989 è tutto un brulicare di suoni, che lasciano intendere mani solide ed esperte: scale sgranate alla massima velocità, da quei pianisti da corsa che guidano la tastiera come pochi passi più in là, all’Autodromo “Dino Ferrari”, fino al 2006 i campioni di Formula Uno guidavano per vincere il Gran Premio.
Ma chi è stato a portare la musica, che ai tempi di Caterina Sforza, di Leonardo da Vinci, del Valentino Borgia, a Imola era solo fregio e sollazzo di potenti cortigiani, a fare della Rocca la fabbrica dei sogni di centinaia di pianisti provenienti dal mondo?
E’ stato un uomo con Imola nel sangue, che del pianoforte ha fatto il suo trono, il suo scrigno, il suo altare, il suo palcoscenico, il motore di tutte le sue giornate e delle sue notti insonni: Franco Scala. Un uomo cresciuto all’ombra degli alberi del Parco Tozzoni, romantico luogo sulla collinetta appena fuori dalle mura della città, di cui i genitori facevano i custodi. Con il fratello maggiore, Umberto, che componeva e cantava in dialetto una sua canzone, “Iomla bella sité”, abbracciando la fisarmonica.
Le mani concrete di Franco Scala non hanno mai lasciato la terra, anche quando imparavano tra le mura romane dell’Accademia di Santa Cecilia, quando danzavano il liscio col gruppo di Castellina Pasi per sbarcare il lunario, quando egli restò inghiottito dalla decisione di chiudere per sempre la sua carriera di solista in mezzo a un concerto per pianoforte con l’Orchestra Toscanini, neppure mentre firmavano il contratto di docente al Conservatorio Rossini di Pesaro, né mentre aprivano la porta al suo progetto di creare un’accademia pianistica.
Dal 1979, io pianista ragazzina nella classe pesarese che gli ha procurato tanti allori, ho vissuto giorno dopo giorno quel progetto: braciolate con sindaci e assessori davanti a un camino, telefonate e riunioni con i grandi colleghi e i grandi amici, cene al “San Domenico” luogo speciale in centro storico, oggi a fianco dei Musei imolesi, che Romano Visani, l’amico cuoco di Scala fece diventare uno dei migliori ristoranti stellatissimi d’Italia. E poi gli incontri dove tutti noi allievi, ogni mese, passavamo il weekend a suonare ad appassionarci e ad ascoltare i più illustri maestri della tastiera; concerti al Teatro Comunale “Ebe Stignani”, altro gioiello ottocentesco imolese, conferenze stampa nelle sale del Palazzo Comunale, lì sotto l’orologio, che si affaccia sull’affascinante Piazza Matteotti con qualche arco a reminiscenza delle sue origini gotiche ma ricostruito a fine Settecento... e poi le masterclass estive negli ambienti dell’Istituto Tecnico Agrario Scarabelli, altro fiore all’occhiello cittadino, tra i colli imolesi a sud, quelli dei buoni vitigni.
Avvenne così, che Franco Scala decise che la sua accademia doveva diventare “il San Domenico della didattica”. La cucina di quei raffinati accostamenti di repertori, scelte interpretative, personalità giunte da ogni luogo, e di decine di pianoforti a coda volati dal Giappone per concretizzare il sogno. Ma anche la cucina fatta di garganelli al ragù, formaggio scquacquerone e “salcicce” alla brace che i musicisti hanno apprezzato nondimeno!
Interpreti del calibro di Vladimir Ashkenazy, Jorg Demus, Nikita Magaloff, Sviatoslav Richter, Alexander Lonquich, Aldo Ciccolini, Tatiana Nikolaeva. Maurizio Pollini, Gerhard Oppitz e tanti ancora si sono fermati con i giovani artisti dei tasti bianchi e neri. Addirittura Lazar Berman e Boris Petrushanskij a Imola ci si erano trasferiti, in quel gioiello di Villa Torano in via Poggiolo messa a disposizione dalla Diocesi, dove le due famiglie provenienti dai geli moscoviti trascorrevano anche gli inverni a finestre spalancate, con preoccupazione dei termostati. Ma son passati anche compositori e direttori d’orchestra che hanno comunque segnato la storia del pianoforte come Pierre Boulez, Riccardo Muti, Daniele Gatti,
Di proprietà diocesana, dagli anni Novanta, sostenuta dalla Fondazione di banche locali, un’ala dello storico imponente Palazzo Monsignani Sassatelli sulla via Emilia, è diventata Museo del Pianoforte, con la ricchissima collezione di Scala & C. che accompagna i visitatori lungo la storia degli strumenti a tastiera. E’ anche studentato per i pianisti accademici e contiene una Sala concerti intitolata a Mariele Ventre.
In giro molti imolesi, pian piano, hanno imparato a capire cosa ci facessero quei ragazzi orientali, americani, russi, spagnoli, spesso in gruppo a far baldoria o chiusi la notte nella Rocca, a registrare i demo per le più prestigiose competizioni internazionali.
Fui proprio io, da giornalista pubblicista con il gusto inebriante delle parole, a trovare il titolo dei nostri seminari, da cui ha preso nome l’Accademia: “Incontri col Maestro”. E così mi ero lanciata a nominare “Da Bach a Bartòk” il festival estivo, e “Le tastiere raccontano”, “A nota libera” le mie lezioni-concerto all’Accademia.
Tutto, sotto l’essenza di un fortissimo, motivante pensiero, che sta nella parola forse più importante e pronunciata dal maestro Scala: Entusiasmo.
In questi 35 anni le note del pianoforte hanno risuonato ovunque vi fossero spazi invitanti nella città: il cortile di Palazzo Tozzoni (primo Settecento), edificio che reca lo stemma di una delle grandi famiglie imolesi; le eleganti sale di Palazzo Sersanti, uno dei più antichi, che risale al XV secolo; e poi la Piazza, le chiese, i cinema, persino la Cooperativa Ceramica d’Imola che fino alla fine del XX secolo era colosso mondiale nel settore e portatrice storica della decorazione artistica “imolese” dignitosa anche al cospetto della vicina di casa “faentina”.
Imola “suona” anche così, come un pianoforte, con la sua forza, la sua impronta decisa e imprenditoriale, le sue vibrazioni concrete e multiformi.
Caterina Criscione
La Rocca Sforzesca di Imola |
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