Foto d'epoca di Piazza matteotti Imola (fonte foto QUI |
Quando la città non era ancora una città, ma si poteva ancora chiamare paese, quando ci si conosceva tutti e i vicini di casa erano amici con i quali trascorrere le serate estive nei cortili per parlare del più e del meno, a dir la verità erano più i meno che i più, quelli erano gli anni di un ritrovato benessere, lo spettro della guerra era stato sepolto sotto ad un cumulo di macerie.
Si godeva di quello che si aveva, di quello che ci dava la madre terra e si ringraziava Dio dell’aria che si respirava. Erano bei tempi quelli!
Le strade erano semi-deserte e si poteva girare tranquillamente in bicicletta senza rischiare di finire sotto le ruote di qualche automobilista imprudente.
Sedevo sulla sella della mia “Graziella” rosa confetto e gironzolavo per le vie del paese con la gonna scozzese che svolazzava leggera sospinta dal vento.
La domenica pomeriggio era il momento più atteso della settimana, dopo aver pranzato mi appostavo dietro al vetro della finestra della cucina, scostavo nervosamente la tendina di pizzo bianco, nell’attesa della mia amica Patrizia, la quale arrivava spingendo faticosamente i pedali della sua bicicletta bianca sgangherata con i copertoni perennemente sgonfi.
Sorpassandoci a vicenda raggiungevamo una stradina lastricata di sanpietrini che fiancheggiava la piazza centrale per andare a goderci la proiezione del film pomeridiana.
Ma il momento goliardico era soffermarmi davanti alla bancarella vicino al cinema ricca di ogni goloseria.
L’omone che vendeva noccioline, praline, cioccolatini, caramelle e patatine sedeva sopra uno sgabello di legno scalfito, indossava sempre un foulard rosso in qualsiasi stagione, sia che ci fosse una nebbia che si tagliava a fette oppure un caldo che scioglieva l’asfalto.
Tutti lo chiamavano MARIU’.
Mia madre mi dava i soldi contati per il biglietto del cinema, così strisciavo piagnucolando dalla nonna, la quale avendo un cuore di nonna , mi allungava qualche monetina.
Essendo un’inguaribile golosona rimanevo incantata davanti a tutte quelle leccornie senza decidermi cosa comprare. Facevo tintinnare le monete nel palmo della mano, nell’eterna indecisione tra noccioline caramellate, bastoncini di liquirizia, lecca-lecca rossi o arancioni, sicuramente strapieni di coloranti oppure bacche di carrube, che in genere sono leccornie per i cavalli, ma piacevano molto anche a me.
Quell’omone grande e grosso attendeva paziente che prendessi una decisione, poi insieme al sacchetto di caramelle sfoderava anche un sorriso bonario.
Pensavo che Mariù dentro al suo pancione contenesse un animo gentile e dolce come i prodotti che vendeva.
Ma purtroppo una brutta domenica quell’omone con il suo carrettino non l’ho più trovato nel solito posto, quel giorno mi sono dovuta accontentare di un misero sacchetto di mentine gialle e bianche comprate al bar in fondo alla strada.
Il tempo passa inesorabile e il paese di un tempo si è trasformato in una vivace cittadina.
Crescendo ho smesso di mangiare caramelle e Patrizia la domenica pomeriggio non passa più a prendermi con la bicicletta sgangherata, ma con una Punto rossa fiammante, però siamo ancora appassionate di cinema e continuiamo ad andare a vedere le ultime pellicole.
Un anno fa verso la fine di novembre, una domenica sera, all’uscita dal cinematografo siamo state sorprese da una nebbia fittissima. Patrizia guidando nel grigio assoluto ha perso l’orientamento e svoltando per una strada sconosciuta ci siamo ritrovate in un borgo piuttosto lontano dalla città.
L’ora di cena era passata da un pezzo e il nostro stomaco brontolava rumorosamente quando un’insegna di una trattoria, malamente illuminata, ci è apparsa miracolosamente innanzi.
“La Casa di Polly” era il tipico locale campagnolo arredato con i mobili della nonna, i tavoli abbelliti da classiche tovaglie di cotone a quadretti bianche e rossi.
Odorava di casa.
Il mio palato è stato soddisfatto da un piatto di tagliatelle al ragù che mi ha trascinato lontano nel tempo, quando la nonna tirava la sfoglia sul tagliere di legno e la cucina era invasa dall’intenso profumo del sugo che bolliva lentamente da ore.
Stavo aspettando il conto, quando il mio sguardo si è perso dietro alla vetrata che divideva la sala dalla cucina e ho intravisto la sagoma di un omone grande e grosso con un brillante foulard rosso al collo.
Benché non lo vedessi chiaramente, ero quasi certa che si trattasse di Mariù, anche se spesso con il passare del tempo i ricordi si affievoliscono e perdono consistenza.
Sono tornata molte volte in quella trattoria fuori mano per gustare i piatti tipici della mia terra romagnola, tortellini cotti nel brodo di cappone, stufato di fagioli con la salsiccia, piadina con lo squaquerone e croccanti crostate con la marmellata di pesche fatta in casa, annaffiando il tutto con un bicchiere di sangiovese e constatare che quell’omone grande e grosso era lo stesso che mi rimpinzava di dolciumi.
Ma si sa che le cose buone finiscono e una domenica sera al posto della “Casa di Polly” ho trovato un edificio ultra moderno con la facciata di vetro che ospitava una clinica per grassoni ricchi che dispensava diete ipocaloriche con menù a base di sedano e carote.
Avevo perso Mariù per la seconda volta e con lui un altro pezzo della mia gioventù.
Il tempo continua a scorrere lento e ora invece di Patrizia, al cinema mi accompagna Federico. Siamo sposati da un anno e oggi è l’anniversario del nostro matrimonio.
Federico mi ha fatto una sorpresa, è venuto a prendermi dall’ufficio con un mazzo di rose rosse. E’ un amore e io lo adoro. Ha prenotato due posti in un locale super lusso, dove i camerieri indossano una divisa impeccabile e servono aragosta con lo champagne.
“La Lampada D’Oro” è un ristorante situato all’interno di un palazzo dell’ottocento in pieno centro storico. I tavoli sfoggiano una “mise en place” elegante e raffinata con tovaglie di lino ricamate, bicchieri di cristallo, posate d’argento e in centro un candelabro di vetro colorato.
Cena squisita, antipasto di salmone aromatizzato agli agrumi, linguine all’astice, rombo al forno con patate all’aneto e per finire deliziose pere al porto.
Mi sporgo per baciare Federico, contenta per avermi regalato questa serata romantica a lume di candela, quando una signora elegantemente vestita che è seduta alla cassa cede il posto ad un omone grande e grosso con i capelli color del platino e un foulard rosso al collo con una vistosa spilla d’oro.
Il suo viso mi ricorda qualcuno e improvvisamente un sapore dolciastro m’invade il palato. La visione di Mariù mi appare nitida davanti agli occhi.
Accompagno Federico alla cassa e mostro un sorriso conturbante con la vana speranza che mi riconosca. Dentro di me una vocina grida: “Sono io, quella bambina con la gonna corta e i calzini bianchi che aspettava con ansia la domenica pomeriggio per venire a comprare i lecca-lecca e le noccioline da te!”
Lui rimane impettito, sigillato dentro ad una giacca nera che gli va decisamente stretta con lo sguardo incollato al moderno computer.
Un dubbio mi assale. Forse non è lui. Il tempo cambia anche le persone.
Federico prende il resto di quel conto salatissimo e mentre lo ripone nel portafoglio mi faccio coraggio e chiedo all’omone: “Scusi, ma lei si chiama Mariù?”.
L’uomo mi guarda perplesso, si muove con impazienza sulla piccola sedia imbottita, la sua bocca si apre in un sorriso sardonico poi replica: “Prego? Non so chi sia questo Mariù”.
Sono imbarazzata e confusa. Mi scuso, prendo sotto braccio Federico, il quale non ha capito nulla e usciamo dal ristorante.
Mentre sto salendo in auto sento un vocione chiamare: “Signora, signora”. Mi volto e vedo una grande sagoma affacciata sulla porta della cucina del ristorante.
Ritorno sui miei passi e raggiungo l’omone.
“Signora mia, lei mi ha riconosciuto…ero io che vendevo noccioline e caramelle gommose vicino al cinema, ma Mariù, come mi chiamava la gente, non era il mio nome, ma bensì quello di mia moglie. Io mi chiamo Aristide. Quelli erano altri tempi, non so dirle se erano meglio quelli o questi che stiamo vivendo, dove il Dio denaro ci ha reso sì più ricchi, ma anche più avidi e intolleranti. Sono contento che mi abbia riconosciuto e di avere avuto un posto nei suoi ricordi per tutto questo tempo”:
lo ringrazio di cuore, la sua sincerità mi rincuora. Non mi ero sbagliata, dentro di lui regna un cuore gentile, pieno di umanità.
Torno spesso insieme a Federico e Davide, nostro figlio, per gustare l’ottimo cibo, salutare il mitico Mariù, il quale adesso ci fa sempre un grosso sconto!.
Elisabetta Rurricchia
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